testimonianze + 2018 ottobre 20
Venticinque
anni sono tanti. Si trattasse di un matrimonio festeggeremo le nozze d’argento.
Ma non è tanto diverso: festeggiamo 25 anni di fedeltà, 25 anni
sempre dalla parte dei ragazzi e delle
ragazze di strada del Guatemala, 25 anni dalla parte dei poveri, senza
tentennamenti, senza tradimenti, senza adulteri; nemmeno una volta dall’altra
parte, dalla parte cioè dei padroni del mondo che dispongono delle vite altrui,
senza che la maggior parte di noi nemmeno se ne accorga e magari imprechi contro
il destino.
Ma che
significa stare dalla parte dei poveri?
Assai meglio
di me lo saprebbero dire altri qui presenti: Gerardo, Remo, Molli, Massimo, e
tanti/e altri/e. Ve ne parlo io, perché, essendo socio di Amistrada che si
occupa dei ragazzi di strada di Città del Guatemala ed anche di Cittadinanza e
Minoranze, un’associazione di promozione sociale che si occupa della gente che
vive in strada a Roma, per lo più i cosiddetti e le cosiddette zingari/e, Remo
mi ha chiesto di parlare delle connessioni tra le due esperienze. Ci provo.
Stare dalla
parte dei poveri vuol dire, secondo me, anzitutto ascoltarli. Non dire loro quel
che devono e non devono fare; non parlare in nome loro, non sostituirsi a loro;
non presumere di poterli rappresentare, ma ascoltarli per cercare di capire il
loro punto di vista, condizione indispensabile per
poterli sostenere nella rivendicazione dei loro diritti. Perché quando lo si
guarda dal punto di vista dei poveri, il mondo è tutta un’altra cosa, lo si vede
al contrario.
Un esempio.
Prendiamo una parola che va di moda: sicurezza. Quando ne parliamo noi pensiamo
che vorremmo che nessuno potesse entrare
in casa nostra per derubarci e che nessuno quando usciamo potesse borseggiarci o
rapinarci e, se siamo donne, che nessuno potesse tentare di stuprarci. Diritti
sacrosanti, intendiamoci.
Per le
famiglie del Campo River, che sono state messe letteralmente in strada e
bivaccano nei pressi della Stazione di Prima Porta, è diverso.
Mettiamoci
nei panni di A. S., romena che contribuisce al menage familiare chiedendo
l’elemosina. Il marito fa un po’ di facchinaggio, piccoli lavori di muratura, il
“butta fuori” in un locale a San Lorenzo e volontariato in un struttura presso
la quale è in cura la figlia più piccola,
affetta da sindrome Down. Hanno altri due figli, un maschietto ed una ragazza
sui 18 anni, che lavorava come cameriera in un locale della zona Termini con un
contratto di tre mesi; si è dovuta dimettere
perché non avendo più come lavarsi: non riusciva a presentarsi al lavoro
nelle condizioni di decenza che il locale richiedeva
Tutti e 5 hanno dormito per un mese nella casa di un connazionale andato in
patria per quel periodo; successivamente in macchina quando trovano qualcuno che
gliela presti per la notte o a terra su cartoni.
Non diverso
il caso di T. L., anche lei romena. Ha 57 anni, è diabetica e cardiopatica;
anche lei chiede l’elemosina. Vive con la figlia 34enne, il genero che fa il
muratore ed i loro tre figli di 14, 13 e 2 anni – tutti vaccinati tengono a dire
–; i due più grandi vanno a scuola. In 5 dormono in un furgone perché in più non
c’entrano sicché T., dorme a terra, su di un cartone.
Diverso è il
caso di S. R., bosniaca di 43 anni. Con il marito, che raccoglie e vende rottami
metallici, ed i cinque figli di 10, 7, 6, 3 e 2 anni hanno trovato posto nella
tendopoli della Croce Rossa di via Ramazzini (alle spalle del San Camillo).
Tutti i giorni con i suoi 5 figli viene a Prima Porta con i mezzi di linea per
accompagnare i figli a scuola e all’asilo, gli stessi che frequentavano l’anno
scorso e che quindi non possono rifiutare
l’iscrizione per quest’anno, come sta accadendo a diverse famiglie Rom.
Queste donne
vorrebbero la sicurezza di non essere scacciate dalle forze dell’ordine anche
dal piazzale della Stazione, che possano continuare ad andare al gabinetto e a
lavarsi alla bell’e meglio nei bagni della Stazione, che se vanno ad iscrivere
figli e nipoti in una nuova scuola non si sentano dire che non c’è posto, che
quando piove riescano a trovare riparo sotto portici o sotto ponti e di riuscire
a mettere insieme il pranzo con la cena, anche se queste per loro sono parole
grosse, in particolare ora, poiché, non avendo come poter cucinare, i loro pasti
sono fatti di pezzi di pizza e panini.
Un’idea di
sicurezza dunque ben diversa dalla nostra, tranne che in un punto: anche le
donne Rom vorrebbero essere sicure di poter fare l’amore quando, come e con chi
vogliono loro, e non vorrebbero correre il rischio di essere
violentate.
Stare dalla
parte dei poveri significa inoltre, secondo me, anche capire come nasce la
povertà. Giovanni Franzoni, che molti di voi avranno conosciuto o sanno chi è
stato, i poveri non li chiamava così, ma impoveriti. Ed aveva ragione, perché la
povertà non si trova in natura, non è un fenomeno naturale come la pioggia o i
terremoti. E’ un prodotto sociale: è il co-prodotto della ricchezza. Come in
Fisica anche in Economia nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si
trasforma. La ricchezza, dunque, non la si crea dal nulla ma la si produce
trasferendo risorse: le si toglie da una
parte e le si porta ad un’ altra. Perciò più si produce ricchezza, più si
produce anche povertà. Vi sembrerò un
estremista ed anche fazioso. Pensatelo,
se volete; ma se mi deste 20 minuti del vostro tempo ed una lavagna, vi
mostrerei come si calcola il “valore aggiunto” per un’impresa come per il
“sistema paese” e constatereste che la povertà nasce proprio così.
Per
eliminarla bisognerebbe adottare una altro modello economico; se vogliamo
tenerci questo che abbiamo ci temiamo anche la povertà. Se ne possono solo
ridurne gli effetti se lo Stato in sede di politica economica riesce ad operare
una massiccia redistribuzione della ricchezza prodotta. Quando non vi riesce,
come accade ai giorni nostri, la povertà assoluta ed anche quella relativa
crescono ed aumento le diseguaglianze.
In queste
condizioni stare dalla parte dei poveri significa allora anche aiutarli a
costruirsi da loro un lavoro perché senza lavoro non c’è possibilità di
inclusione sociale e nel modello economico vigente le imprese non hanno più
bisogno di tanti lavoratori come un tempo ed i pochi posti di lavoro che
generano non sono adatti ai poveri.
Per questo il
Mojoca in Guatemala, per dare occasioni di lavoro
ai ragazzi e le ragazze di strada, ha puntato da subito sull’artigianato
tipico e poi sulla produzione di cibi sia del luogo sia facendo arrivare
dall’Italia un maestro pizzaiolo che ha insegnato quest’arte.
Altrettanto
fa a Roma Cittadinanza e Minoranze per i Rom. Punta a legalizzare i nuovi
mestieri che gli “zingari” si sono inventati, quando per quelli tradizionali non
hanno trovato più clienti: il commercio dei rottami metallici ed “andare a
secchioni” cioè rovistare nei cassonetti, trarne quanto è ancora utilizzabile,
ripulirlo, restaurarlo e riciclarlo. L’economia ufficiale ha di recente scoperto
anch’essa questa attività e l’ha chiamata “economia circolare”. Cittadinanza e
Minoranze ha prospettato in sedi ufficiali queste opportunità sia alla Regione
sia al Comune nel quadro degli interventi per il “superamento dei campi”
previsto dalla Strategia di Inclusione Sociale dei Rom Sinti e Caminanti
approvata dal Governo Monti. Essendo però rimasta inattuata questa strategia
sono rimaste lettera morta anche le due proposte. Ora speriamo di riuscire ad
aprire una interlocuzione con il III e l’VIII Municipio perché per realizzare
progetti del genere è indispensabile trovare una sponda nelle Istituzioni.
Nelle more
stiamo cercando di aiutare una famiglia
Rom a costituire un cooperativa di pulizie mentre ne stiamo aiutando un’altra a
trovare clienti per una lavanderia da poco realizzata a Spinaceto con un
investimento di 45mila Euro (31ottenuti da banche, 4.500 da Migrantes ed il
resto messi insieme con cene, lotterie e raccolte di fondi). Si tratta di
superare una “barriera all’ingresso “ sul mercato, come dicono gli aziendalisti,
costituita dal pregiudizio anti Rom. Mi spiego. In vista della inaugurazione
della lavanderia di C. H. avevamo ipotizzato con due giornaliste una campagna
pubblicitaria imperniata sulla notizia che una famiglia Rom ce l’aveva fatta!
Mentre la stavamo immaginando, nel locale dove si stavano installando i
macchinari entra un signore che, saputo che si stava allestendo una nuova
lavanderia, se ne rallegrò molto, perché quella da cui si serviva era sempre
piena di zingari e per questo intendeva lasciarla. La campagna pubblicitaria fu
immediatamente bloccata e ci si limitò a inserire volantini nelle cassette
postali dei palazzi vicini. Ma che si trattasse di zingari, benché puliti e
gentili, lo si è capito egualmente e di clienti nemmeno l’ombra. Allora per
trovare una clientela ci siamo rivolti ad uno strano personaggio amico dei Rom.
E’ un prete, un certo don Paolo, che quando è stato consacrato vescovo, dal
momento che è prescritto che ogni vescovo abbia uno stemma e lui è ligio alle
regole, se ne è fatto uno e dentro ci ha messo la bandiera dei Rom. Stranezza di
una vita da prete! E così ora alcuni centri della Caritas mandano da lavare
lenzuola, coperte ed asciugamani alla lavanderia di Spinaceto, che così comincia
ad avere un po’ di lavoro. Come vedete la vita degli zingari è difficile. Potrei
raccontarvi di Z., ma vi sto prendendo troppo tempo.
Mi direte:
<ma gli zingari rubano>. E’ vero. Non tutti, ma molti; non sempre, ma spesso.
Però secondo me a chi non è riconosciuto il diritto di lavorare deve essergli
riconosciuto quello di rubare. Vi sembrerà strano. Ma il mio convincimento si
basa su quanto ho sentito dire da un prete. No, non da don Paolo. Accadde a
Napoli molti anni fa, prima della guerra. Potevo avere sei o sette anni ed era
di Maggio. Mia nonna, che mi portava con sé ovunque andasse, era andata a
sentire una predica del mese mariano
nella nostra parrocchia, una chiesa che a seguito di una grande operazione
urbanistica per l’abolizione dei fondaci era incorporata in un palazzo, lo
stesso in cui abitavamo. Aveva due
ingressi: uno su di una strada signorile – nel palazzo di fronte al mio abitava
Enrico De Nicola, principe del Foro e futuro primo presidente provvisorio della
Repubblica – e l’altra su di una strada sulla quale affacciavano palazzi abitati
da poveracci, quelli che Emilio Sereni chiamava popolino, cioè da
sottoproletari. Così che da un ingresso entravano i “signori” che sedevano su
sedie impagliate per le quali si pagava l’uso al sediario e dall’altra entravano
i poveri che sedevano gratuitamente su panche di legno. Ma la predica era la
stessa, per i signori, meglio per le signore e per le povere. Dal pulpito il
prete rivolgendosi alle signore disse testualmente così: <Guardate che se la
vostra cameriera fa la cresta sulla spesa, non fa peccato. E’ il risarcimento
per il basso salario che voi le date>. Da grande ho scoperto che questa
affermazione non se l’era inventata quell’anonimo prete, ma è sancita nei
trattati di Teologia Morale. Il furto è sempre un reato, ma in certe condizioni
non è peccato.
Che volete?
Ve lo avevo detto che assumendo il punto di vista dei poveri il mondo lo si vede
all’incontrario.
E’ come lo
deve aver visto Mimmo Lucano a Riace. E’ per questo che lo hanno messo agli
arresti, ma a migliaia sono scesi in piazza a sostenerlo.
Concludo:
mercoledì scorso è stata la giornata mondiale di lotta alla miseria. Un altro
prete un po’ strano, Luigi Ciotti, ha dichiarato: <la povertà è un reato contro
la dignità degli esseri umani e chi non se ne occupa è complice e colpevole>.
Ho finito. Vi
chiedo scusa se l’ho tirata troppo per le lunghe e per di più dicendo cose non
sempre gradevoli.
Nino Lisi