testimonianze + 2016 settembre 25

 

Eccoti caro Gerardo la biografia di Diomira.

Ci ha fatto piacere che abbia pensato a donare qualche suo risparmio al Movimento e senz'altro, oltre le cornamuse che suonavano durante la cerimonia, anche qualche canto del nostro coro guatemalteco l'avrebbe fatta sorridere e aprire gli occhi sgranandoli dalla sorpresa, come faceva in casi simili.

Un abbraccio

Marina Ramonda

 

DIOMIRA RAFFAELLI detta “Dio”

una vita a morsi

 

Impossibile in poche righe raccontare di Dio, così chiamavamo noi amici Diomira Raffaelli, classe 1947, nata a Volano, in Trentino e spirata il 18 settembre 2016 a 69 anni e mezzo precise, precise….

 

In seguito all’aggravamento della sua malattia la distrofia muscolare (1), con la quale ha convissuto cercando di vivere una vita degna per gli altri e per se.

 

Quell’abbreviazione del suo nome non è parsa a nessuno mai blasfema, forse perché in lei si riconosceva una caratteristica importante come LA FORZA E LA DETERMINAZIONE, allo stesso tempo quando il suo desiderio d’onnipotenza, ovvero di controllo di persone e situazioni era eccessivo, le si diceva:” Ehi! Calmati…non sei Dio!”.

 

Diomira di se racconta:

“I primi sintomi del male si manifestarono all’età di 10 anni, in un’epoca, gli anni ’50, in cui l’unico destino poteva essere ancora quello di rimanere chiusi in casa oppure segregati in un istituto per handicappati”.

 

Diomira, in controtendenza e con il coraggio o l’incoscienza dei vent’anni, apre il suo sguardo oltre il piccolo paese in cui vive, dice:

A 20 anni ho avuto l’opportunità di conoscere il Movimento di Capodarco in un pellegrinaggio a Loreto e ho scelto di andare a vivere nella loro comunità aderendo alle idee e allo spirito del loro Movimento, che proponeva una vita alternativa agli istituti e all’emarginazione alle persone disabili dell’epoca.

Lottavamo in quegli anni a vari livelli, in occasioni e manifestazioni diverse, sia per noi stessi sia per sensibilizzare l’opinione pubblica, e raggiungere un’indipendenza psicologica, sociale ed economica.

A Capodarco ho fatto un corso di ceramista per due anni e ho lavorato nel laboratorio per quattro”.

 

Qui, fra alterne vicende, la Dio rimarrà complessivamente per circa 5 anni, un periodo entusiasmante, ricco di incontri, confronti, crescita, ironia e passione.

 

Diomira racconta:

”La Comunità era tutto, fuorché un istituto. Nata dall’idea di un prete “moderno”, don Franco Monterubbianesi, rappresentava a quel tempo un modello nuovo e rivoluzionario di convivenza e condivisione fra soggetti disabili, volontari, giovani che cercavano di dare una risposta ai perché della vita e meno giovani alla ricerca di una loro dimensione.

La Comunità di Capodarco, in quel periodo diventa fucina di confronto culturale, modello di convivenza e di crescita, se possibile anche da imitare e da esportare.

A quel tempo la parola d’ordine era de-istituzionalizzare, cioè abbattere gli schemi precostituiti e i pregiudizi entro i quali si muoveva la società e più in particolare noi soggetti disabili. Lo si faceva attraverso una presa di coscienza e una crescita culturale collettiva, che passava da incontri anche improvvisati sui temi sociali più disparati, sulla filosofia, sulla storia delle religioni, sui problemi del mondo.

Parole d’ordine: solidarietà e condivisione.

Era il ’68: cantavamo Bob Dylan e Joan Baez, discutevamo della guerra in Vietnam, di femminismo, di diritti civili ed individuali della persona, grandi temi nazionali e internazionali”.

 

E’ di quegli anni il mio incontro e amicizia con Diomira.

 

Dio prosegue:

A 22 anni mi sono sposata con un ragazzo siciliano che faceva il volontario a Capodarco di Fermo e dopo quattro anni di cui un periodo passato in istituto ho chiesto l’annullamento del mio matrimonio.

Nel 1978 sono partita da Capodarco con un gruppo di persone disabili e non, per aprire un’altra comunità, qui al Nord sul modello di Capodarco; vi ho vissuto 20 anni.

Ho lavorato come responsabile della comunità, occupandomi della gestione e dell’accoglienza, dedicandomi a tempo pieno alla cucina e all’inserimento di persone nuove: volontari e obiettori di coscienza, persone sane, disabili fisici, caratteriali e persone con problemi di vario tipo, naturalmente in collaborazione con gli operatori.

Per alcuni anni la comunità Gruppo 78 si è trasferita a Rovereto ed è diventata una comunità solo diurna, per supporto a persone con disagio e appoggio logistico ad una cooperativa sociale aperta dalla comunità stessa.

Facevo parte del Consiglio d’amministrazione della cooperativa.

Ero l’unica a viverci a tempo pieno e mi occupavo della casa e della cucina con l’aiuto di volontari italiani e stranieri.

Nel 1999 mi sono aggravata e in una fase acuta ho subito un intervento di tracheotomia per un grave problema respiratorio, e ho vissuto due anni ad Arco di Trento in ospedale, allo scopo di riprendere pian piano una vita però sempre attaccata al respiratore.

 

Ho accennato all’ironia che Dio esercitava per tutta la sua vita, con battute continue, mi ricordo che anni fa quando raccolsi la sua storia di vita, era il periodo dove le era stato consigliato di usare per alcune ore del giorno e della notte, il respiratore.

 

Ricordo come le era difficile accettare di dipendere anche da una macchina.

 

Diomira reagì rifiutandosi di utilizzarla, poi le vennero delle malattie di natura psicosomatica, che le impedirono di metterla, successivamente le furono chiaramente detti i rischi del non farne uso; lei allora cominciò a chiamare il respiratore ironicamente "Richard Gere", e quindi spesso la sera diceva all'assistente di turno: "Vado a dormire con Richard Gere".

 

Il respiratore le aveva permesso di vivere con più serenità, ma dall’altro con più restrizioni: la voce bassa, poca resistenza nelle uscite.

 

Nei primi anni il respiratore le permetteva di dormire più tranquillamente e lei lo usava con regolarità, si concedeva, solo ogni tanto, di non curarne la manutenzione come avrebbe dovuto e quindi, quando si rompeva, era come se Diomira vincesse sulla macchina. In quella circostanza i comunitari si precipitavano a Bologna in poche ore per farlo riparare, perché Dio secondo tutti non poteva farne a meno; la più tranquilla in quella occasione sembrava proprio lei.

 

Diomira c'insegna un modo concreto come altri per convivere con il pensiero della morte: combatterla.

 

Successivamente quando il respiratore sarà “vitale” per lei, ci conviverà dandosi una disciplina di vita.

 

Rimarrà tracheotomizzata per ben 16 anni, un vero record, come mi ha detto il medico che la seguiva ultimamente.

 

In questi ultimi anni Diomira richiede, con l’aiuto d’amici e della mia famiglia, di poter usufruire del progetto per la Vita Indipendente, che le è stato assegnato nel 2001.

 

Ha vissuto nel suo paese d’origine, in una casa in affitto, visitata giornalmente dal dottore e da un’infermiera, e da operatrici.

 

Di quel periodo parla così:

”Necessito di respiratore sia di notte sia in alcune ore del giorno e di essere aspirata diverse volte il giorno, per evitare crisi respiratorie.

Ho maturato in questi ultimi anni un’esperienza importante per ciò che riguarda una vita indipendente in condizioni di dipendenza grave.

Questo, che pare sembrare un paradosso, mi fa molto riflettere e recentemente vorrei scambiare opinioni e riflessioni anche con altri, su questo modello di progetto. Poter decidere io la gestione quotidiana della mia esistenza, nonostante la grave malattia, sin dall’inizio dava un significato diverso alla mia vita. In più, tante persone intorno a me, amici e familiari, mi rendevano la giornata, come dire, più dinamica e leggera.

Purtroppo è cambiato molto in questi anni. L’aggravamento della malattia mi rende sempre più fragile sia fisicamente che psicologicamente con inevitabili ripercussioni pure nei rapporti con le persone. In più, recenti vicissitudini dei miei familiari hanno inevitabilmente allentato il loro aiuto pratico e i volontari hanno avuto nel tempo un drastico ridimensionamento numerico

Tuttavia riconosco l’importanza che può avere ancora per me, e per altri nelle mie condizioni, la divulgazione pubblica, di questo mio progetto di “Vita indipendente”.

 

Diomira per spiegare il suo stato d’animo, quando decide a scegliere di andare a vivere in un a casa di cura per anziani a soli 63 anni, dice:

avevo bisogno di aprire la casa affinché non si chiudesse la mente”.

 

Ma certo in quel momento lei pensava di nuovo alla possibilità di vivere in una comunità come in passato; la risposta è sempre stata negativa dal momento in cui si è aggravata e quindi gioco forza non le rimaneva che la casa di cura.

 

Dio continua:

Avverto ora più che un tempo, il bisogno di quella “comunità allargata” dalla quale l’ospedale e l’evoluzione della malattia mi hanno tolto nel 1999.

Purtroppo nemmeno nel ricco Trentino, oggi esiste qualcosa di analogo per chi come me si trova in uno stato di completa immobilità e di dipendenza da una macchina ma che, per contro, ha ancora presente un certo gusto della vita.

Eppure nei confronti di malattie, che so, come Alzheimer o per i malati terminali vi sono istituzioni idonee, vi è uno sforzo da parte dell’ente pubblico... Mi piace immaginare, insomma, una struttura che ci permetta di rivolgerci ad essa uno o due periodi all’anno - oppure per tutta la vita - per trovare sollievo psicologico, sicurezza, vivacità, calore.

Nella mia vita ho avuto vicina la mia famiglia: mia sorella Laura, soprattutto nell’aggravarsi della malattia è stata sempre disponibile nell’affiancarmi, è pensionata, si è separata da diversi anni e ha un figlio; mia madre Agnese, vissuta fino a 102 anni.

Abbiamo affrontato insieme molti momenti difficili ed anch’io ho cercato di essere per loro un sostegno e punto di riferimento.

Anche gli amici sono stati importanti in tutta la mia vita, tanta gente incontrata in comunità diversissima fra loro, ma in questi anni difficili, ho ritrovato vicino persone che ho e mi hanno scelto”.

 

Santina Portelli

 

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(1) Distrofia muscolare: malattia muscolare ereditaria, ad evoluzione progressiva accompagnate da deformazioni e debolezza, per le quali non esistono al momento terapie efficaci, anche se la ricerca negli ultimi anni ha fatto dei progressi. Le caratteristiche cliniche comuni della distrofia muscolare sono: l’ereditarietà, il coinvolgimento della muscolatura e il loro tipo di esordio.

(2) Brani tratti da: “L’impresa della vita” di Maurizio Panizza, Nuove idee, Aprile 2007.

(3) Brani tratti da: “Convivere con l’handicap” di Santina Portelli, K, 1999