testimonianze +2012 marzo 4, Roma - Giulio Girardi ed il “mondo cattolico italiano"
Su Giulio Girardi, la sua produzione intellettuale e la testimonianza che ha reso con la sua militanza si possono e si dovranno dire e scrivere innumerevoli cose. Di una, assorbita (in parte) l’emozione per la sua morte, provo a scriverne anch’io. Di quella che Gerardo Lutte ha definito la <grande influenza> che Giulio ha avuto <nella seconda metà del secolo scorso su tante persone del mondo cattolico>.
Giulio ha costituito per i militanti del “mondo cattolico” italiano, una specie di evento, in particolare per chi non aveva ancora vent’anni e militava nella Giac (Gioventù Italiana di Azione Cattolica) quando Pio XII scomunicò i comunisti e la gerarchia proibì, sotto pena di peccato, di leggere la stampa comunista. Almeno a Napoli, si raccomandava persino di evitare di leggere i titoli dell’Unità e dell’Avanti che gli edicolanti esponevano nei loro chioschi. E poiché i militanti della GIAC erano considerati e si consideravano, secondo la definizione dell’epoca, “partecipi dell’apostolato gerarchico della chiesa”, si sentivano tenuti ad una fedeltà assoluta alle indicazione della gerarchia.
Sin dal ’48 e dal ’52 e ’53 furono fortemente coinvolti nelle campagne elettorali. Il loro compito era di opporsi e contrastare la propaganda del partito comunista e dei suoi alleati. Ma capitava spesso che nella propaganda “porta a porta” e nei “comizi volanti” che si improvvisavano in strada dovessero confrontarsi con i militanti del PCI, spregiativamente chiamati “agit prop”. Accadeva non raramente però che sui temi sociali non trovassero motivi di effettivo contrasto, perché il loro sentire era molto vicino alle posizioni degli agit prop. Di conseguenza gli argomenti che portavano per spiegare all’uditorio perché non si dovesse votare per il Pci e per i suoi alleati riguardavano l’ateismo, l’asserita pratica del “libero amore”, il fatto che in Russia le chiese erano state trasformate in musei e i bambini venivano sottratti all’educazione familiare per impartir loro l’educazione del partito. E si paventava che qualcosa del genere potesse avvenire anche in Italia con esplicito riferimento ai “pionieri”, una specie di scout comunisteggianti, organizzati dal Pci.
Per dare un’idea del clima dell’epoca riporto la motivazione che il direttore di Il Giornale d’Italia, Santi Savarino, in un articolo intitolato Neocristianesimo Dilettantesco pubblicato il 22 aprile 1954 addusse per spiegare la destituzione di Mario Rossi dalla Presidenza Nazionale della GIAC. Scrisse testualmente: “Comunità, comunitario, comunione, comunismo: si scivola facilmente sulle parole e sulle cose di comune origine” e citò non casualmente “quel Mounier che si autodefinì apostolo della rivoluzione comunitaria”. Non casualmente, perché Mounier insieme a Maritain erano autori molto frequentati negli ambienti della Giac, in cui contemporaneamente giravano, proprio per impulso della presidenza nazionale, anche i testi della casa editrice di Adriano Olivetti che appunto si chiamava Comunità.
Tutto ciò con il passar del tempo creò non poco disagio nelle fila della Giac; disagio che si acuiva grandemente quando le lotte sociali dei contadini del Sud e degli operai del Sud e del Nord venivano confrontate dalla celere di Scelba. Nel tempo divenne sempre più pesante la contraddizione tra un modo di sentire che portava a solidarizzare con chi lottava contro le ingiustizie e per liberarsi dalla miseria e la fedeltà alle direttive della gerarchia.
Agli inizi degli anni sessanta, mi si perdoni la citazione di un episodio personale, in una tornata di elezioni amministrative nelle quali per la Provincia si votava con i collegi uninominali si presentò nel mio collegio per la D.C un candidato per il quale non mi sentii di votare. Infransi l’obbedienza e votai per quello socialista. A cose fatte ne parlai con il mio direttore spirituale, un prete favoloso, di frontiera, al quale devo tantissimo, che ricordo ancora oggi con affetto e riconoscenza. Con espressione addolorata mi disse <Nino, anche tu ci tradisci>. La sua frase e soprattutto la sua espressione di dolore mi colpirono tanto che a distanza di mezzo secolo me ne ricordo ancora.
Questa era dunque la condizione di militanti cattolici: dilaniati (non è una parola sproporzionata) tra la fedeltà alla chiesa rappresentata dalla gerarchia ed il condividere molte delle analisi e delle proposte che venivano dai partiti di sinistra, dalla lezione del marxismo.
Poi venne Giulio. La sua lezione e la sua testimonianza riuscirono a fare quello che né Maritain, né Mounier, né la Nouvelle Teologie erano riusciti a fare. A sciogliere la contraddizione.
Spiegò infatti che l’utilizzo delle categorie marxiste come strumento di analisi e di interpretazione delle dinamiche sociali non infrangeva la fedeltà al Vangelo, che non c’era necessariamente contraddizione tra essere cristiani ed essere comunisti. Fu una liberazione!
Per questo il movimento di Cristiani per il Socialismo - che proprio in Giulio aveva trovato uno dei principali ispiratori - poté “traghettare” (era il verbo che si usava allora) centinaia di migliaia di cattolici nei partiti delle sinistra (“nuova” e “vecchia”) dando un contributo decisivo alla rottura dell’unità politica dei cattolici. Attraverso Cristiani per il Socialismo i credenti che si erano finalmente sentiti liberi di fare “la scelta di campo” si collegarono - e non soltanto idealmente – oltre che alle lotte sociali che si svolgevano in Italia anche quelle che i popoli latino americani conducevano per la propria liberazione e di cui Giulio raccontava quando era in Italia illustrando il ruolo che le comunità cristiane di base e la teologia della liberazione vi giocavano.
Ricordare ciò che Giulio ha rappresentato in passato è dunque importante.
Ma gli si farebbe torto se ci si limitasse a questo. Giovanni Franzoni, parlando di Giulio nell’assemblea di commiato che si è svolta nella Comunità di S. Paolo come di un seme che muore per dare frutti, ha implicitamente raccomandato di non farlo.
Ciò dipende da noi.
Se parlassimo di Giulio solo al passato rischieremmo di farne un santino. Dobbiamo parlarne invece anche al presente ed al futuro. Dobbiamo cioè provare ad applicare la sua lezione nel nostro quotidiano, chiedendoci da che parte stare di fronte agli avvenimenti con i quali siamo chiamati a misurarci. L’insegnamento di Giulio è di stare dalla parte dei perdenti, di chi non ha potere, di chi lotta per “sciogliere le catene inique; togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo” (Is. 58, 6).
Non è semplice, né scontato. Ci si deve provare.
Nino Lisi