testimonianze + 2016 Gennaio 24 - Guatemala
Care amiche e cari amici
Una nipote mi ha chiesto di scrivere della mia vita in Guatemala. La mia
vita è il Mojoca. Ho cominciato a descrivere episodi dei quali non si parla
abitualmente nelle lettere dalla strada, nei resoconti e nei bollettini. Poi ho
pensato che potrebbe interessare anche ad altri. E quindi mando anche a voi la
lettera indirizzata a mia nipote.
Potreste pensare che la vita del Mojoca è
tranquilla e ordinata, come quella di una scuola. Non è affatto così! È
piuttosto simile al pronto soccorso di un ospedale, un tema di molte serie
televisive. Vi parlerò della vita quotidiana del Mojoca nei luoghi insoliti
come: le carceri, i tribunali, gli ospedali, i cimiteri.
La settimana scorsa, di prima mattina, mi
avvisano che Diana, un’adolescente, è nella casa Otto di Marzo e richiede i suoi
documenti d’identità e del figlio di due anni. L’anno scorso questa adolescente
era stata accompagnata da una ragazza del Mojoca che l’aveva incontrata in
strada. Non possiamo accogliere nella nostra casa una minorenne non accompagnata
dalla madre, quindi siamo stati costretti a rivolgerci ai tribunali per i
minorenni dove abbiamo incontrato una giudice comprensiva che, in un primo
tempo, ha permesso a Diana e a suo figlio di rimanere con noi. Dopo un paio di
mesi, li ha assegnati ad un’istituzione dove ricevevano adolescenti con figli.
Diana ci dice che un giudice aveva stabilito di mandare il figlio in un’altra
istituzione e lasciarla libera di andare dove voleva. Il suo racconto non ci
convinceva, ci siamo informati e abbiamo saputo che due giorni prima, un giudice
aveva affidato l’adolescente e suo figlio a degli zii che vivevano a più di
cento chilometri dalla capitale. Abbiamo parlato con Diana che ci ha detto che i
suoi zii erano troppo poveri per farla studiare, come esigeva il giudice, e poi
lei non voleva vivere con il figlio che non accettava perché frutto di uno
stupro commesso dal compagno di sua madre. Discutendo con l’adolescente siamo
arrivati alla conclusione che era meglio per lei andare in un’istituzione che
accoglie adolescenti vittime di violenza sessuale e di lasciare il figlio con
gli zii. Qualche giorno dopo, la nostra psicologa ha accompagnato Diana dagli
zii. Hanno parlato con loro, che hanno capito le ragioni della loro nipote e le
hanno dato l’autorizzazione di ritornare con la psicologa nella capitale. Adesso
ci tocca ripresentare Diana ai giudici per i minorenni, sperando che siano
d’accordo con la nostra proposta. Dipendiamo totalmente dalla loro buona volontà
e molto spesso le loro decisioni non rispondono alle necessità della madre e dei
bambini.
Prendiamo l’esempio di Sara. Una giudice
ha rifiutato di restituirle la figlia di sei anni dicendo che nella casa Otto di
Marzo avrebbe imparato brutte parole. La magistrata non sa che i bambini
imparano brutte parole a scuola, in strada, nelle famiglie, ovunque incontrino
altri bambini; ha detto a Sara che le avrebbe ridato la figlia quando avesse
avuto un lavoro regolare e una stanza con due letti, perché diceva che a sei
anni una bambina ha bisogno di un letto solo per lei. La giudice non si era
accorta di vivere in Guatemala, dove la stragrande maggioranza delle persone non
ha un lavoro regolare e dove la gente dorme assieme a tre, quattro persone nello
stesso letto. Dagli zii, Diana dormiva con suo figlio insieme a loro e nella
casa vivevano sei altri figli e figlie sposati con i loro bambini. Abbiamo a che
fare spesso con giudici che... guai a chi cade sotto le loro grinfie!
Quattro giorni fa hanno condannato a
dodici anni di carcere due nostri giovani. Falsamente accusati da poliziotti di
detenzione e spaccio di marijuana. Un educatore del Mojoca, era presente quando
hanno arrestato i due giovani e sapeva che le accuse erano false. Non è riuscito
a testimoniare durante l’udienza e adesso dovremo fare appello, e andremo se è
necessario fino al Tribunale Interamericano dei Diritti Umani. Scriveremo al
Presidente, al Ministro di Giustizia, faremo comunicati stampa, manifestazioni,
ma non abbandoneremo i nostri giovani.
Una decina di giorni fa Barbara è venuta
a trovarci alla casa della tredicesima strada. Alle due di mattina era stata
rilasciata dal carcere dove aveva passato sei anni, per alcuni furti commessi in
strada: la giustizia non colpisce i genocidi come il Generale Rios Montt,
colpevoli di decine di migliaia di assassini, stupri, ma ha la mano pesante con
i poveri, spesso costretti a rubare per dare da mangiare ai loro figli. Barbara
è riuscita ad utilizzare i sei lunghi anni di carcerazione per preparare il suo
reinserimento nella società. Ha terminato la scuola elementare, la scuola media,
il liceo e ora si vuole iscrivere all’università. Ma è troppo tardi per questo
anno. In carcere lavorava, inviava soldi alla sorella che aveva accolto suo
figlio, aveva messo anche qualcosa da parte e, appena uscita, ha pagato il
rinnovo del suo documento d’identità e ha iscritto il figlio ad una scuola.
Adesso vive nella casa Otto di Marzo, impara il mestiere di sarta in un nostro
laboratorio. Sta cercando un lavoro per vivere la sua vita indipendente nella
società, ma non è facile trovarne uno, soprattutto quando la fedina penale non è
pulita.
Altri luoghi della nostra vita sono gli
ospedali, dove spesso andiamo in visita ai nostri ammalati o accompagniamo i
giovani di strada che da soli sarebbero respinti. Nell’immenso ospedale San
Giovanni di Dio, Cristian, un bambino di due anni della casa Otto di Marzo, è
ricoverato per problemi polmonari e sua madre sta con lui. Le ragazze della casa
gli portano il pranzo e la cena o le danno il cambio. C’è solidarietà nella
casa.
Domenica scorsa siamo andati con Quenia,
Rosa, Caroline - una giovane infermiera belga - ed io, a visitare Giorgio
all’ospedale Roosevelt. Giorgio anni fa è stato operato per un tumore al midollo
e da allora soffre di ulcere ed è costretto a spostarsi su una sedia a rotelle.
Giorgio non si lascia abbattere, studia la sera e durante il giorno vende gomme
da masticare sulla frequentatissima 6 Avenida del centro storico; aveva persino
affittato una camera dove viveva da solo, ma una recrudescenza dalla malattia lo
ha costretto a tornare alla casa dei ragazzi, poi all’ospedale. Mi aspettavo il
peggio perché mi avevano detto che stava molto male e non parlava più. Invece,
ho trovato il Giorgio di sempre. Non ho tardato a capire la ragione del suo
benessere. Quando stavamo lì, hanno servito il pranzo e una giovane donna si è
avvicinata per aiutare il nostro amico. Caroline mi ha chiesto se fosse
un’infermiera. Negli ospedali guatemaltechi, dove non ci sono soldi per le
medicine, per gli strumenti e persino per pagare i medici e il personale
ausiliare, nessuno pensa al lusso degli infermieri per assistere gli ammalati a
mangiare. Era meglio di un’infermiera. Era l’amica di Giorgio, una giovane
venditrice clandestina di matite sulla 6 Avenida, che Giorgio aveva incontrato
mentre lavorava. L’amore può rendere dolce la dura vita dei venditori di strada
e dà voglia di vivere: non vi dico la mia gioia nel vedere questi due giovani
innamorati e di ritornare a casa rassicurato sul futuro di Giorgio. Grazie
Evelyn, dolce venditrice di matite. Caroline invece era scandalizzata nel vedere
questo ospedale. La sua dubbiosa pulizia e letti ammucchiati fino a 25 in una
sala non troppo grande e persino nei corridoi. Anche la salute è una merce e i
poveri si devono accontentare di ospedali dove manca tutto.
Nello stesso ospedale, c’era anche María,
una ragazza di 25 anni, che frequentava la scuola elementare del Mojoca. Ma
nella notte di venerdì María è morta, per arresto respiratorio provocato non si
sa per quale ragione. Malgrado le varie analisi, i medici non hanno capito di
quale malattia soffrisse María. Lei aveva passato la notte di Natale con i
giovani del gruppo di strada ed era tornata molto ammalata a casa sua. Alcuni
pensano che sia stata avvelenata da un compagno di strada; la voce si è sparsa
rapidamente in tutti i gruppi di strada e del Mojoca. Il sospetto è stato
cacciato dal suo gruppo e per lui si temeva il peggio. Nella notte di domenica,
con Quenia, ci siamo messi alla sua ricerca, ci avevano detto che si era
rifugiato in un altro gruppo dove sarebbe stato in pericolo. Abbiamo avuto
un’incredibile fortuna nel trovarlo e metterlo in guardia. Abbiamo parlato anche
con i giovani, di gruppo in gruppo, per spiegare loro che non c’erano prove
sicure della colpevolezza del giovane sospetto, e che non spettava loro farsi
giustizia. Il lunedì abbiamo continuato il nostro lavoro di coscientizzazione.
Sabato con Quenia e altre ragazze della Otto di Marzo, siamo andati al suo
funerale dove abbiamo trovato ragazze e ragazzi di strada e del Mojoca: le
solite scene di disperazione di pianti, di grida, di dolore.
Estela, una ragazza della Otto di Marco
ha preso la parola per ricordare la gentilezza di Maria, e ha intonato un canto
sull’amicizia; poi altri ragazzi di strada hanno preso la parola per parlarle.
Una morte inaccettabile, ingiusta. Una bambina di tre anni orfana. Noi tutti del
Mojoca privati di un’amicizia preziosa.
Troppe volte ho seguito bare di ragazze o
ragazzi lungo le stradine di questo immenso cimitero. E non sopporto più i
discorsi pii sulla vita migliore, secondo i quali si troverebbero ora in
paradiso, dove tutto è gioia, armonia, felicità. Il paradiso lo vogliamo ora,
qui sulla terra! Basta con l’inferno della miseria e delle continue umiliazioni,
delle carceri disumane, dei tribunali corrotti, degli ospedali senza igiene e
senza medicine! Il paradiso lo dobbiamo costruire ora con una rivoluzione
planetaria. Ci sarete anche voi, vero?
Gerardo.