testimonianze + 2012 Ottbore 4, viaggio in Guatemala

È passato del tempo dal viaggio in Guatemala, tempo necessario per riprendere la routine della mia vita di studentessa, ma soprattutto necessario per riflettere a mente fredda su quello che ho visto e su tutte le emozioni che ho provato.

Le parole sono assolutamente insufficienti per raccontare questo viaggio, questo immergersi, anche se per poco tempo, in un mondo completamente diverso da quello in cui vivo.

Ho provato in queste settimane a raccontarlo e per quanto io mi sforzassi e dall’altra parte ci fosse un’assoluta apertura mentale e di cuore, mi rendo conto di non essere riuscita mai a farmi capire davvero.

Prima di partire mi ero ben documentata, avevo letto, visto filmati etc e probabilmente la situazione la immaginavo proprio così com’è realmente, ma il vederla con i miei occhi per certi versi mi ha stupita, disorientata, eppure gli studi che ho fatto e le letture e tutto il resto mi avevano preparata, ma tutto ciò non è bastato, non è servito.

I primi giorni sono stati, oserei dire, faticosi. Ho vissuto con gli occhi perennemente spalancati perchè tutto era, per me, nuovo e diverso e, soprattutto, per la maggior parte delle volte, ingiusto.

Ogni sera mi chiedevo come mai le coordinate geografiche possano rendere così diversi i modi e le condizioni di vita, e come possano influire sui diritti.

E ogni giorno mi accorgevo di fissare gli occhi, le cicatrici e i tatuaggi di queste ragazze e di questi ragazzi.

Ragazze e ragazzi che abbiamo incontrato per strada a Città del Guatemala durante le uscite fatte con dei bravissimi operatori del movimento.

Ragazzi e ragazze tra gli 11 e i 26 anni circa,  che a 11 anni  sembravano più piccoli della loro età e a 26 anni già vecchi. Non dimenticherò mai i loro occhi,  scuri scuri e molto spesso persi e vuoti a causa delle sostanze di cui fanno uso per strada, che molto spesso ho contrapposto agli occhi degli operatori del movimento, il colore è quasi lo stesso (scuro scuro) ma l’intensità è completamente diversa. Gli occhi delle operatrici e degli operatori sono estremamente vigili e presenti, occhi pieni, responsabili e veloci.

E questa differenza tra gli occhi e un po’ quella che c’è tra la strada e le strutture del movimento. Varcare quel cancello significa veramente immergersi in una realtà fortemente contrastante con quella che quotidianamente i ragazzi e le ragazze vivono in strada. Significa avere un luogo sicuro, pulito e tranquillo, significa avere del cibo e un posto dove poterti lavare, significa avere del tempo per giocare.

È veramente molto importante il lavoro che si svolge nel centro. Dà la concreta possibilità di modificare le cose. Di mettere un punto e voltare pagina. Ne sono un esempio gli operatori che hanno vissuto per strada e poi affrontando il percorso all’interno del movimento hanno cambiato vita e occhi. Io credo che questa presenza è fondamentale per chi sta intraprendendo il percorso e ha dato a me la conferma dell’importanza e della grandezza del progetto.

Il nostro viaggio non è stato solo questo, è stato anche la visita ad un orfanotrofio e a un paese dove lavora un prete che da sempre si occupa di comunità indigene.  E ancora una volta quello che è venuto fuori è quanto siano forti e insormontabili i confini, che nel caso degli indigeni, per esempio, non sono confini concreti ma sono immateriali e di status ma fanno male più del filo spinato.

Forse il tempo trascorso non è ancora sufficiente, mi rendo conto scrivendo che forse ho ancora un po’ di confusione ma non sono sicura che passerà.

Penso anche che le mie considerazioni sono considerazioni da “occidentale” (non mi piace per niente questa parola), da persona che vive lontano e in un modo completamente diverso e quindi sicuramente la mia lettura non potrà mai essere una lettura corretta perchè per ovvie ragioni sono portata a leggere quella realtà con i miei filtri.

La mia vita e quella delle persone che ho incontrato in Guatemala continuerà uguale a prima, però posso dire che sicuramente è stata un’esperienza forte, difficile da spiegare ma che  sono contenta di aver vissuto, anche se per poco.

Serena Fulco