seminario cdb Rimini 2017-12-8
Ricordare Giovanni
Oggi facciamo memoria di un frammento di vissuto, comune a tutte le comunità
cristiane di base, lungo almeno quattro decenni. Per qualcuno di noi questi anni
trascorsi, pescano addirittura nell’età fra l’adolescenza e la giovinezza; per
un ragazzo degli anni trenta come me, che ha vissuto gli anni della chiesa di
Pio XII, questo frammento ha il nome e il volto sorridente di Giovanni e ha
rappresentato uno squarcio di luce nel buio. Altri lampi avevano illuminato di
speranza la nostra fede: gli anni del preconcilio e poi quelli della stagione
successiva; ma erano esperienze intellettuali, parole ascoltate, parole lette,
belle parole. Mai parole incarnate.
E poi abbiamo conosciuto Giovanni.
Giovanni era un monaco benedettino e, insieme, un uomo curioso di vivere il suo
tempo.
Non identità separate ma un’identità meticcia non scindibile messa al servizio
di un desiderio di ricerca nella libertà. Ricerca di fede, certamente, ma
intrecciata alle contraddizioni del tempo presente. Innanzitutto un
atteggiamento intellettuale sempre pronto ad andare “oltre”, a misurarsi – e non
solo teoricamente – con qualunque ipotesi spiazzante, capace di ribaltare
certezze e acquisizioni consolidate che fossero appartenute sia alla sfera del
“sacro”, che alla città concreta degli uomini e delle donne.
Così, una parabola “pietista” come quella del samaritano diventa un modo
sovversivo per riformulare il concetto di prossimo con le accuse esplicite agli
uomini del potere e del tempio; così, la speculazione fondiaria entra nelle
sontuose case generalizie degli ordini religiosi che circondano Roma e i poveri
diventano gli “impoveriti” all’interno di un processo di sfruttamento che ha
assunto la dimensione planetaria.
Queste riflessioni di Giovanni non avvengono mai, né prima, da Abate di san
Paolo fuori le mura, né dopo, da cattolico marginale quale egli si definiva, nel
chiuso di una cella di convento al riparo di una Bibbia per iniziati, ma
insieme, in un percorso comunitario trasparente e contraddittorio che segna e
orienta scelte di vita, prassi generose quanto faticose che accrescono tuttavia
il patrimonio di umanità di tutta la comunità che egli anima.
Giovanni era un maestro di provocazioni feconde: sia che il terreno dell’esegesi
fosse la Bibbia, o la tradizione buddista, o i grandi rabbini e i loro midrash,
tutto serviva per incrinare consolidate convinzioni, per affrontare i sentieri
impervi della profezia, per svelare le tracce del divino al di là e oltre le
strade battute e usurate delle interpretazioni consolatorie e scontate.
Giovanni era maestro nel laboratorio di religione; bambino anche lui coi nostri
figli bambini perché sapeva unire la curiosità dei bambini a quella sua;
esorcizzava le loro paure del diavolo “nostro fratello”, valorizzava la loro
creatività e la loro fantasia in una ricerca che li lasciava liberi di
proseguire nel loro cammino personale senza ricatti, ma anche arricchiti di
risvolti inusuali.
Giovanni era maestro di laicità: non solo per il suo costante impegno
anticoncordatario sia contro l’insegnamento confessionale della religione
cattolica nelle scuole o per la battaglia per l’abolizione dei cappellani
militari ma soprattutto per la sua profonda fiducia nella scienza e nel suo
progresso che lo conduceva al rispetto di chi aveva pagato con la vita, come
Giordano Bruno o come il vescovo Priscilliano, disobbedienti alle autorità
ecclesiastiche del loro tempo, in nome della coerenza con i loro ideali.
E Giovanni era maestro perché ha incoraggiato tutti noi, ma soprattutto le donne
della comunità, a vivere anche nella fede il loro nuovo protagonismo sociale e
quindi ad osare teologia, letture poco conosciute, quasi occultate fino ad
allora, liturgie creative, capaci di contaminare l’insieme della comunità e
tutte le articolazioni plurali in cui si materializza il nostro impegno
collettivo.
La predilezione di Giovanni, pari alla sua angoscia per le sorti di quei popoli,
andava alla terra di Palestina e poi al Guatemala, al Nicaragua, al Brasile dove
diverse esperienze hanno costruito in questi anni episodi di solidarietà non
effimeri: è nata così, nella coscienza collettiva di ciascuno di noi, e questo è
un privilegio di cui ci stiamo rendendo consapevoli giorno dopo giorno: la
solida convinzione che la pace è inscindibile dalla giustizia.
E così, continuiamo a camminare. Insieme, nella faticosa e sempre incerta
esperienza di fede, nella serena precarietà delle nostra ricerca, ma con
l’audacia che Giovanni ha insegnato a ciascuno di noi. L’audacia del profeta che
non ha fatto dell’obbedienza la sua virtù. La sua professione di fedeltà era
solo per l’uomo di Nazareth.
Giovanni amava i canti, tutti i canti; da quello gregoriano che un giovane
monaco benedettino cantò durante la veglia in comunità, alla vigilia del suo
commiato, a quelli della tradizione del movimento operaio e contadino, a quelli
di Fabrizio De André e a quelli delle lotte di liberazione dei popoli
latino-americani oppressi. Ce ne era uno che cantiamo spesso: “Grazie alla
vita”, il cui primo verso continua: “perché mi ha dato tanto”. Io penso che,
ogni volta che pensiamo a Giovanni, noi tutti possiamo intonare questo canto.