Giovanni Franzoni e i perduti
Tanti sono i ricordi di Giovanni che si
affollano nella mia mente. Le cose che ho imparato da lui mi sono rimaste
dentro. Tutte. Ma se penso a quella che più ha cambiato il mio modo di vedere le
cose, il mio sguardo sul mondo, credo che sia il suo rapporto con gli emarginati
e le emarginate.
L’emarginazione Giovanni la conosceva, ne ha
fatto esperienza, con una grande, grandissima sofferenza. Ma gli emarginati di
cui parlo, nel ricordo che farò qui di Giovanni, non sono i teologi ed i profeti
messi a tacere dalla Chiesa cattolica per evitare fastidi, non sono neanche i
poveri alla piccola fiammiferaia, quelli che ci inteneriscono, parlo di quelli
da cui stare alla larga, che qualche volta ci fanno paura, quelli brutti e
cattivi, abbrutiti dalla povertà o dalle vicende della vita, parlo dei perduti,
degli scarti dell’umanità. Per loro Giovanni aveva un amore particolare. Il suo
sguardo su di loro era uno sguardo controcorrente, che riusciva a vedere quello
che i più non vedono. Per provare a sentire quello che Giovanni sentiva, perché
quel suo sguardo ci scavi dentro e ci contagi, non posso che lasciare a lui la
parola. È quello che farò, riportando le parole che gli ho sentito pronunciare e
quelle che ha scritte nei suoi libri.
Un’esperienza che ha segnato la vita di Giovanni è stato il suo rapporto con
Fausto, uno dei ragazzi,
ospitati nell’ospedale psichiatrico di Santa
Maria della Pietà, che la comunità aveva
accolto, per dare un segno rispetto al problema della violenza che da
sempre si perpetrava nei manicomi. Fausto visse con Giovanni per oltre venti
anni. Scrive Giovanni nella sua autobiografia: “All’inizio, in abbazia, gli
avevo fatto riservare una stanzetta, suscitando i mugugni di qualche monaco,
dove era rimasto quando io lasciai la basilica. Un giorno apparve all’improvviso
alla mia porta. ‘E tu che ci fai qui?’ ‘M’hanno cacciato via pure a me’. E poi:
‘Certo, Franzò, che di stronzi come te a Roma ce n’è uno solo. Stavamo tanto
bene lì dentro…’.
La vicinanza di Fausto mi dette la possibilità
di gettare uno sguardo dentro un mondo di emarginazione che mi era sconosciuto.
Era molto incuriosito dalle donne e dai ragazzi che si vendevano per strada. Io,
a mia volta, provavo una libertà del tutto nuova, come se avessi deposto una
pesante corazza, e mi ritrovavo a osservare tutto con gli occhi miei attraverso
gli occhi di Fausto. In quell’ambiente possono nascere episodi venati di tenebre
e di luce. Un’istantanea: È tarda sera; una donna sta in piedi, appoggiata al
muro con una gamba piegata indietro. Le si avvicina un ragazzo nero col
desiderio negli occhi e senza una lira in tasca. Lei lo osserva e poi gli fa una
lenta carezza, dalla testa fino a tutto il viso. Il ragazzo sorride e se ne va.
Una sera molto tardi, quando stavo per andare
a letto, vidi Fausto che si preparava per uscire. Lo raggiungo quando imbocca la
rampa di scale. ‘Ma dove vai a quest’ora?’. E lui, guardandomi dal pianerottolo
sottostante, mi grida con stizza: ‘Io non ho avuto un padre e non lo voglio
avere’. E se ne andò, lasciandomi col mio inutile paternalismo”.
Ricordo quel giorno in cui Giovanni parlò ai bambini di Jolanda, una prostituta.
Si parlava di santi nel laboratorio di religione (così chiamiamo il percorso fatto in comunità
con i bambini e le bambine) e Giovanni mise
Jolanda tra i santi e le sante. La sua storia la racconta nel suo libro
Ofelia e le altre, dedicato alle donne
non amate: “Mi è triste passare sul vialone che fiancheggia le Terme di
Caracalla e veder vuota, senza bambini che ci giochino intorno, la colonna
spezzata, giacente sul prato erboso, su cui sedeva Jolanda ad attendere
improbabili clienti. Non l’avrei mai conosciuta da vicino e mai avrei saputo
della sua storia se un giorno non mi avesse chiesto un passaggio lungo la via
Ostiense, proprio di fronte ai Mercati Generali di Roma. ‘Può darmi un passaggio
fino al Lungotevere? Vado al funerale di Pasolini.’
Da giovane era stata al servizio in una casa dabbene e il padrone si era
concesso il lusso di abusarne. Da quel fatto nacquero due realtà: un bambino ed
il licenziamento per togliere ogni imbarazzo da una casa di gente moralmente
ineccepibile. Il bambino nacque, fra l’altro cerebroleso, ed il destino di
Jolanda fu per sempre segnato: l’affidamento ad una famiglia che ne assumesse la
cura e la strada per pagare le spese per il mantenimento del bambino.
Di quella storia ci fu poi un epilogo, tutto pagato da lei. In una notte
qualsiasi, ci fu una violenta contesa fra lei e il suo convivente per una
manciata di soldi. Jolanda nella breve e dura colluttazione cadde e batté la
testa sul lavello della povera cucina. Così morì Jolanda: martire di nessun
credo se non quello della vita vissuta sul filo del
non posso fare diversamente”.
È del luglio 2014 la cronaca di un criminale, un malato di AIDS,
soprannominato “il Lupo”. Fu braccato dall’Umbria a Roma, essendosi reso
responsabile di numerosi assassinii. Lui stesso fu ucciso a vista come un lupo.
Per i bambini Giovanni ha scritto una storia
Francesco dei perché,
dedicata a lui: “In
memoria del Lupo che non incontrò Francesco”.
Forse non era solo amore, credo che in Giovanni ci fosse una sorta di attrazione
per coloro che sono scartati dalla società. In tutto questo c’entra la sua fede,
il suo immaginario di Dio, c’entra Gesù di Nazareth, che in quanto a fissazione
per i perduti non scherzava! Ma forse c’è anche altro. La dice lunga un sogno
che Giovanni racconta, a proposito di scarti, nel suo libro
Merda (lo scandalo non è nel titolo, è
nel sottotitolo: Note di teologia delle
cose ultime). Scrive Giovanni: “La parola merda da bambino non mi fu
familiare, preferivo cacca. Fu così che, dovendomi confessare in occasione della
prima comunione nella chiesa parrocchiale di Marina di Carrara, dissi al
sacerdote che avevo commesso degli atti impuri. Alla sua cauta esplorazione
risposi che mi ero compiaciuto di immagini e sogni di cacca. In sogno ne avevo
perfino mangiata. Rassicurato dal confessore sulla non mostruosità del fatto, mi
avviai tranquillamente al mio approccio con la vita sacramentale, dopo aver
affrontato, per la prima volta, un problema di coscienza”.
E ancora: “Guai a chi cammina per le strade
del mondo ignorando volutamente che cosa vi passi sotto. Le fogne più gravide di
messaggi passano indubbiamente nel profondo della psiche, sotto la pelle tesa
della coscienza: non possiamo liberarci senza conoscere”. E, a proposito di
cattivi odori: “D’altronde, nella stalla in cui nacque Gesù non doveva dominare
il profumo dell’acqua di Colonia e non
pare che il Figlio se ne sia schifato. Sarà per questo che Fabrizio De André
canta: Dai diamanti non nasce niente, dal
letame nascono i fiori”.
Chissà se l’amore di Giovanni per le canzoni
di De André, di cui parlava spesso con i ragazzi, avesse qualcosa a che fare con
quel letame dell’umanità in cui entrambi intravedevano i semi, che avrebbero
fatto nascere i fiori. A Giovanni però dispiaceva per la brutta figura che
facevano i diamanti. Non poteva lasciarli inchiodati al loro destino di
inutilità. A loro dedicò una storia, scritta per i bambini,
Il diamante caduto. Tanto per restare
in tema nella storia il diamante cade in una gigantesca cacca di mucca, che gli
da una bella lezione. Lui capisce, ci pensa e con un gesto d’amore si rende
utile, mettendosi al servizio di un povero, vecchio vetraio. Così finisce la
storia: “Una notte Fabrizio De André che stava suonando la chitarra, a
cavalcioni di un corno della luna, lo vide e disse: ‘Toh! C’è un diamante che fa
qualcosa! Ed io che ho sempre detto che dal letame nascono i fiori e dai
diamanti non nasce niente!’. ‘Ti sei sbagliato – disse Diamante – perché è vero
che comincio con D come disgrazia, distruzione e disastro, ma finisco sempre con
Amante!’ E Fabrizio si fece una risata e accettò la lezione”. E così Giovanni,
oltre alla cacca, riuscì a recuperare anche i diamanti.
Bene spiegano il pensiero di Giovanni e quello che ci ha lasciato in
eredità, le parole di Cecilia Braschi, ex bambina del laboratorio ora
quarantenne, ricordando in un’email a Giovanni l’esperienza del laboratorio di
religione: “Ci mettevi in guardia da ogni fanatismo religioso e da ogni
strumentalizzazione del ‘bene’ e del ‘male’. Quanta attualità abbiamo da allora
dovuto decifrare attraverso questi parametri essenziali eppure per niente
scontati! E quanto è stato importante aver ricevuto da bambina qualche strumento
per farlo in modo quanto meno pacifico. Ricordo in particolare una cosa che ci
dicesti, che mi sembrò allora una vera e propria rivelazione, e che, mi pare,
abbia determinato per sempre il mio sguardo sul mondo: i cattivi non esistono,
esiste la cattiveria. Un concetto così semplice, eppure che, ancora oggi, non ho
finito di riempire di contenuti...”
Era ancora abate quando, in qualche sua
omelia, Giovanni ci faceva riflettere sull’appellativo di “mostro”, attribuito a
quelli che si rendono responsabili di orrendi fatti criminali. Esistono persone
che non possono essere considerati esseri umani? Liquidare il problema pensando
che coloro che compiono simili atti siano mostri, significa allontanarne la
soluzione. Sentirli esseri umani come noi è più difficile, ci mette in gioco:
non mostri, ma uomini e donne, che forse hanno bisogno di sentirsi onnipotenti,
per non scoprire di essere fragili.
Nel 2006, durante la
celebrazione eucaristica del 30^ incontro nazionale delle Comunità di Base, una
bambina lesse un pezzo tratto da un’antica storia dell’Oriente:
“Un uomo che camminava nel deserto vide, di
lontano un mostro spaventoso.
Il mostro gli si avvicinò e il viandante si
rese conto che non era un mostro, era un uomo brutto e orribile.
Poi si voltò ancora e vide che era
semplicemente un uomo stanco.
Poi riuscì a guardarlo in viso e riconobbe suo
fratello”.
Dopo un po’ Giovanni si alzò, prese il
microfono e capovolse la storia:
“Ho guardato negli occhi mio fratello
e ho visto che era stanco.
Gli si è formato un sogghigno sul volto
e ho capito che era cattivo.
Gli ho strappato la maschera
e mi è parso un mostro ripugnante.
Allora ho pianto e l’ho abbracciato”.
Tra i perduti, i resti dell’umanità, non potevano non trovare nel cuore di
Giovanni un posto, ed un posto speciale, Satana e i dannati, gli
scarti del progetto di salvezza.
Un viaggio verso l’abisso dell’esclusione e della perdizione, quello che
Giovanni fa nel suo libro Il diavolo mio
fratello, fino ad incontrare gli intoccabili tra gli intoccabili, i perduti
tra i perduti, ed a riconoscerli come suoi fratelli.
Nel suo viaggio è con lui il suo Dio, quello
che lo ha accompagnato in tutta la sua vita, che gli ha toccato il cuore e lo ha
convertito. Un Dio disarmato, paziente, pedagogo e redentore per l’eternità,
mendicante di una risposta d’amore, che ha tutta l’eternità davanti a sé per
seguitare a rilanciare la sua proposta di amore. Così ne parla nel suo libro
La solitudine del samaritano: “L’amore
è discesa e impoverimento. L’amore irradiante di Dio si disperde come un
ruscello in una terra arida e assetata che assorbe e non produce amore, ma Dio è
paziente e l’ultima forma di onnipotenza che gli resta dopo l’impoverimento
dell’incarnazione è forse la pazienza di seguitare a irradiare amore, contro
ogni ragionevole economia”.
Lo accompagna in quel viaggio Gesù di Nazareth, lui stesso identificato con un
samaritano, lui stesso considerato indemoniato. Scrive Giovanni nel libro
Il diavolo, mio fratello: “Giovanni (8,48), raccontando una
disputa di Gesù con la gente che non coglie il senso del suo messaggio, riporta
questa frase: ‘Non diciamo noi con ragione che tu sei un samaritano e che hai un
demonio?’. Gesù sarebbe un samaritano perché ha clamorosamente abbandonato la
purezza della legge e della fede, e sarebbe un demonio perché è divenuto
avversario dell’ordine costituito, un ordine che è supposto rispondere
perfettamente al valore di Dio”.
Pensando a Dio si chiede Giovanni: “Ma Dio?
Che ne è dell’amore di Dio per la sua creatura perduta? Perché mai i dannati
dovrebbero essere inchiodati per sempre al loro peccato? Perché la giustizia di
Dio non potrebbe essere almeno eguale a quella degli uomini migliori? Se,
dunque, anche la coscienza dell’uomo moderno ha intuito che non necessariamente
il prezzo della colpa deve essere la galera più cupa possibile, perché noi
vogliamo escludere che Dio sia mille miglia in avanti, in questa prospettiva? E,
ancora, come sarà la ‘giustizia giusta’ di Dio sui tiranni, i carnefici, i
potenti che sulla terra hanno immolato migliaia e milioni di vittime? Come
potrebbe essere la pedagogia divina che guarisce questi dannati, per trarli
dall’abisso della perdizione? Io non ne so nulla di nulla. Ma mi balena un
pensiero, e oso proporlo: Dio sarà ‘più giusto’ se torturerà per l’eternità un
Hitler, o non invece se lo ammetterà infine nella portineria del paradiso, a
stendere – ogni volta che passerà un ebreo, uno zingaro o un omosessuale – un
tappeto di fiori?”
E conclude: “Se ho scritto lunghe pagine per
dire di no a Satana, era per poter finalmente dire di sì solo al Dio di Gesù
Cristo. Nego Satana, i diavoli, i demoni, in nome dell’uomo e in nome della
fede. Vorrei essere samaritano, vorrei essere demonio se dall’abisso
dell’esclusione sapessi e potessi farmi prossimo, e sentirmi guarito dall’amore
di chi mi raccoglie e soccorre, e guarire, Dio voglia, anch’io qualcuno se,
povero samaritano e povero diavolo, avrò saputo lasciare la strada sicura per
avventurarmi sul suo ciglio scosceso, a sanare una piaga, a lenire un dolore, ad
amare un altro samaritano, un altro diavolo come me. Mio fratello samaritano,
mio fratello diavolo”.
Dea Santonico
1 dicembre 2017